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I 100 anni del basket italiano

3 NOVEMBRE
BASKET

Tra le tante storie della nostra pallacanestro ecco quella di Bill Bradley, vincitore della Coppa dei Campioni con l'Olimpia Milano e poi di due anelli NBA coi New York Knicks.

GUIDO BAGATTA

Il 2 novembre la nostra pallacanestro ha compiuto 100 anni. Un secolo di storia che è raccontato in diverse pubblicazioni uscite in queste settimane, un secolo di storia ricco di aneddoti che ci parlano del fascino dello sport più bello del mondo. Tra questi, ho scelto di raccontarvi quello che riguarda Bill Bradley, giocatore straordinario planato sul basket milanese come un vero e proprio marziano di passaggio.

L'astuzia, la sagacia e le conoscenze di Cesare Rubini (quello che, secondo il mio modestissimo parere, è il personaggio faro "all time" della pallacanestro tricolore) riuscirono a far venire in Italia Bradley nel suo periodo di studi più intenso, che gli aveva fatto posticipare una proposta principesca dei Knicks. Lui, che era andato al college a Princeton (ateneo dove prima si sgobba sui libri e poi, se i voti sono a posto, si gioca anche) aveva deciso che solo Oxford, quindi l'Inghilterra, gli avrebbe permesso di completare in maniera superlativa il suo percorso di laurea con un "master".

La "perfida albione" però, come sappiamo, non è propriamente una terra dove la palla a spicchi sia popolarissima e visto che il buon Tom non aveva assolutamente archiviato le sue intenzioni di giocare in NBA, la "folle" proposta del Simmenthal arrivò all'uomo giusto, nel momento giusto. A quei tempi (era il 1965) in campionato si poteva usare un solo straniero, affiancandolo, eventualmente, con un altro per le coppe, ruolo questo perfetto per Bradley.

Così, una volta firmato il contratto con l'Olimpia, quello che poi sarebbe diventato addirittura senatore per lo stato del New Jersey, ogni martedì mattina si imbarcava sul Londra Milano della scomparsa "Boac", arrivando poi in taxi direttamente al Palalido, dove disputava una seduta "singola" di allenamento, sotto lo sguardo vigile del manager-coach Rubini. Per non perdere tempo, poi, invece di andare in albergo a riposare, in vista della seduta pomeridiana collettiva, Bradley si sdraiava su una panchina dello spogliatoio, riuscendo a dormire profondamente per un paio di orette. Ad allenamento terminato, corsa in albergo, tre ore di studio, cena e buonanotte a tutti.

Il mercoledì, poi, il Simmenthal avrebbe giocato in Coppa dei Campioni schierando in quintetto tutto il suo talento cristallino da, come si direbbe oggi, combo 2-3. A partita finita, sia in casa che in trasferta, il futuro Knicks risaliva quindi in aereo per tornarsene agli studi oxfordiani. Una routine che oggi sarebbe davvero impensabile, ma che al tempo fece sì che l'Olimpia potesse schierare in campo europeo una squadra praticamente imbattibile, che in effetti vinse poi la coppa  contro lo Slavia Praga tra le mura dello storico (e ancora funzionale) palazzetto di piazzale Azzarita a Bologna.

Poche settimane dopo Bradley tornò in America, per firmare un contratto record (per l'epoca) con i Knicks, vincendo poi i titoli del 1970 e del 1973. Per assurdo, lui che a Princeton era un realizzatore e primo violino, portò a New York la mentalità che aveva assimilato nelle sue giornate meneghine, quella di un talento più propenso a darsi agli altri che giocare per se stesso, perfetto per mettere d'accordo tutte le stelle che allora affollavano il roster della grande mela. Senza saperlo i Knicks, avevano vinto anche grazie a Cesare Rubini."

GUIDO BAGATTA
Bill Bradley

Getty ImagesBill Bradley

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