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NBA - Lode a CP3, The Point God

31 MARZO
SPORT USA

Chris Paul porta già il divino nel suo nome di battesimo completo e lo manifesta ogni qual volta scende in campo, da 17 stagioni NBA a questa parte, dimostrando una straordinaria onnipotenza cestistica

SPORT TODAY

Se già il soprannome che ti viene affibbiato dai media - che diciamolo, solitamente si spendono più in critiche che in lodi - contiene niente meno che la parola ‘Dio’, significa che c’è qualcosa di veramente sovraumano in quello che fai. E nel caso di Christopher Emmanuel Paul, per tutti Chris, l’ambito di esercizio di questa sua sorta di onnipotenza trascendente è la pallacanestro.

Già il nome completo rimanda all’Altissimo, dal punto di vista etimologico. Christopher deriva dal greco Christophoros, composto dai termini Christós (Cristo) e phérō (portare). Il significato del nome per i credenti è dunque “Colui che porta Cristo”, colui che lo incarna. Simile, sempre a livello teologico, il significato di Immānū'ēl, che dall’ebraico si traduce: “Dio con noi”.

Il più classico dei Nomen omen, riprendendo in questo caso una conosciuta locuzione latina. Di nome e di fatto, diremmo al giorno d’oggi. Ma la sostanza non cambia: al di là dell’etimologia, Chris Paul è considerato dagli addetti ai lavori The Point God, il divin playmaker, per quello che è in grado di fare in campo con la palla a spicchi in mano. Parlavamo di onnipotenza, non certo a vanvera. Vi spieghiamo perché, esaltando i principali attributi del numero 3 dei Phoenix Suns.

Creatore

Il ruolo del playmaker, per essere interpretato a tutto tondo, prevede la capacità di creare gioco per se stessi ma soprattutto per i propri compagni. Negli ultimi anni, le point-guard si sono evolute tendendo sempre più verso le combo-guard: più istintive, aggressive, meno votate alla costruzione corale. Non è un caso che di playmaker puri di altissimo livello oggi si faccia davvero fatica a trovarne, anche perché nel basket moderno il concetto di ruolo è stato quasi totalmente superato.

Chris Paul resta l’ultimo straordinario esemplare della specie, rimasto a ricordarci che nessuno è stato in grado di interpretare il ruolo più complesso della pallacanestro al suo livello negli ultimi 20 anni. Forse Steve Nash, che proprio coi Phoenix Suns di Mike D’Antoni fu artefice dell’esaltante 7 seconds or less offense, basata sulla transizione furiosa e fulminea in campo aperto.

Nash aveva istinti geniali comparabili a quelli di Paul: il canadese è quarto nella classifica degli assistmen di tutti i tempi, proprio alle spalle di CP3 che punta a superare Jason Kidd al secondo posto (l’inarrivabile John Stockton chissà se lo scomoderà mai qualcuno dalla vetta)... Paul inoltre si appresta a eguagliare Nash a quota 5 stagioni da leader della lega per assist di media a gara. Nel 2021/22 è l’unico in doppia cifra di media in stagione (10,8), insieme a James Harden (10,1). Ma non solo: il classe 1985 è primo per offensive rating tra tutte le guardie della lega ed è il migliore in assoluto per il rapporto assist-palle perse quest’anno. 

Eterno

Tutto questo, Chris Paul lo sta realizzando all’alba dei 37 anni, che compirà il prossimo 6 maggio. Alla 17esima stagione NBA, tutte giocate ad altissimo livello.

Solo in tre stagioni non ha raggiunto almeno gli 8 assist di media, mentre in 7 occasioni è andato in doppia cifra (il record è di 11,6 realizzato ai tempi di New Orleans, nel 2007/08).

Forse è proprio questa la qualità che più di tutte rende il prodotto dell’università di Wake Forest avvicinabile a una figura divina: la longevità, che sembra portarlo a migliorare - anziché regredire - man mano che passa il tempo.

Paul governa ancora la partita e il suo ritmo come ha sempre fatto, orchestrando la squadra con sagacia e illuminando i compagni sempre con i tempi giusti, senza disdegnare l’iniziativa personale quando l’andamento della partita lo richiede. Riesce a valorizzare una stella come Devin Booker, i tiratori posizionati sul perimetro, i tagli senza palla degli esterni e i roll dei lunghi a canestro sui giochi a due. Non solo DeAndre Ayton e Javale McGee, ma anche il terzo centro della squadra, Bismack Biyombo, alla sua miglior stagione in NBA per rendimento in rapporto ai minuti giocati. Sarà un caso? Decisamente no.

Presente

È tutto molto semplice: Chris Paul migliora in maniera esponenziale i compagni che gravitano intorno a lui e il rendimento delle franchigie che lo mettono sotto contratto.

Lo ha fatto a New Orleans, portando i quasi neonati Hornets fino al secondo posto a Ovest, nel 2008.

Ha poi dato dignità ai Clippers per la prima volta nella loro storia, a tal punto che Los Angeles veniva considerata non più solo la roccaforte dei Lakers, ma anche Lob City, la città dei passaggi lob disegnati dalla Point God per l'aitante Blake Griffin e compagni.

A Houston è andato a una vittoria dall’interrompere l’egemonia degli Warriors di Curry, Thompson, Iguodala, Green e Durant, secondo molti il quintetto più forte mai sceso su un parquet NBA.

Poi l’annata 2019/20 a Oklahoma City con il nostro Danilo Gallinari, chiusa al quinto posto a Ovest; un dato eccezionale se si considera che i bookmakers davano OKC fanalino di coda della loro conference, a inizio stagione… Non avevano fatto i conti con the Point God effect, quella sorta di presenza divina che dà forza a coloro che la percepiscono. "Dio è con noi", di nome e di fatto.

E infine i Suns, finalisti NBA nel 2021 dopo aver solamente sfiorato la qualificazione ai playoff l’anno precedente. Il titolo è sfuggito sul più bello, ma Phoenix ci sta riprovando con ancora più furore agonistico e determinazione, come dimostra il miglior record NBA della stagione corrente. La squadra sembra essere migliorata ancora. E anche in questo caso, la costante ha un nome di cinque lettere, un cognome di quattro e il numero 3 sulla schiena. A indicare la Trinità? Chi lo sa... Ma da Christopher Emmanuel Paul, aka The Point God, ce lo potremmo anche aspettare. 

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